giovedì 17 maggio 2007

Chiedo Perdono agli uomini e a me stesso (confessioni di un camorrista)

CHIEDO PERDONO AGLI UOMINI E A ME STESSO
Dal Diario di un Anonimo
Fiction di Gennaro D`Aria

PRIMA PARTE

Copyright 2004 Gennaro D’Aria – Accademia Artistica Letteraria D’Aria

IL PRESENTE

Quel giorno, uno qualsiasi, Aldo, il nostro protagonista, mentre stava seduto fuori al giardino della sua villetta a fare colazione, avvolto nella vestaglia di stoffa pregiata, godendosi il primo sole di primavera che faceva capolino tra i rami di un albero secolare, lo sguardo gli cadde su di un quaderno lasciato incustodito, sul tavolo, dalla nipotina. Allungo` il braccio, prese il quaderno e lo porto` a se. Incomincio` a sfogliarlo. Il quaderno conteneva solo pagine bianche. Immacolate. Un`idea balzo` subito alla mente: e se lo avesse riempito lui quel quaderno?…E se avesse per sempre immortalato la storia della sua vita tra quelle pagine per il semplice sfizio di farlo? Se non altro, per dimostrare a se stesso, che ricordava perfettamente tutto il corso della sua esistenza, passo dopo passo. Rimase assorto a pensare, e a ricordare.
Mentre incominciavano a formarsi nella mente i primi fotogrammi della vita, fu invaso da un senso di tristezza. Un brivido gelido percorse la schiena bloccandogli il respiro. In quell`attimo, senti tutto il sapore del male che accompagnava, da sempre, la sua esistenza. Fino allora non ci aveva mai pensato. Tutto era stato, ed era, normale. Ma ora, qualcosa stava cambiando all`improvviso. Se ne rese conto subito. Una lacrima scese sul suo viso. Per un breve attimo ebbe vergogna di se stesso. Ripugnanza di se. Si sporse in avanti sul tavolo, appoggiando la testa tra le mani. Dall`accappatoio semi aperto usci il crocefisso che portava al collo. Era un segno? Lo guardo’ come se avesse presagito qualcosa. Lo strinse nella mano destra, e alzando gli occhi al cielo senti la sua voce sussurrare: “Aiutami Signore”. Poi tutto fu buio davanti ai suoi occhi. Si risveglio` in camera. Circondavano il letto, amici e parenti. Il dottore, il vecchio e caro dott. Caputo, oramai sulla sessantina, (forse anche piu`, non si era mai riusciti a conoscere l`eta` giusta) ma, dall’aspetto atletico. Sempre con la sua lunga barbetta bianca ma, quasi, senza capelli, e impeccabile nel doppio petto gessato, era chino su di lui, e, terminava la visita. Alla vista di quelle persone, come inferocito, le mando` via. Resto` solo. S’alzo` dal letto. Apri` la finestra, affinche` la stanza s’inondasse d`aria fresca. Una luce violenta penetro` all`interno come un proiettile. Ando` all’inginocchiatoio, ereditato dalla madre, e prego`. Poi si avvicino` allo scrittoio, apri il quaderno, prese dal cassetto la sua penna stilografica, ricordo di una donna lontana, e incomincio a scrivere: CHIEDO PERDONO AGLI UOMINI E A ME STESSO. Sono da qualche tempo ammalato. So che non vivro` a lungo. Scrivo questa storia per far sapere a tutti quanta corruzione regna nella nostra societa` falsa e ipocrita. Uomini insospettabili ci sguazzano dentro prendendo in giro con la loro falsa rispettabilita` la totalità` dei cittadini. Ho vergogna di me stesso per quanto andro` a raccontare. Nella mia vita ho rubato, violentato donne, rapito, venduto bambini, e, smerciato droga.
Trafficavo, in tutti i settori dell’illecito, ma mai, sono stato scoperto. Ho mantenuto sempre la mia facciata rispettabile. Amato, ammirato da molti. Invidiato da parecchi. Ho lavorato per molti anni in una banca come impiegato, prima, come direttore poi. Nessuno s`e` mai accorto di nulla. Nessuno ha mai sospettato nulla. Nessuno e` venuto mai a conoscenza di quali nefandezze fossi io capace al di fuori dell`ambito del mio lavoro. Oggi vivo in una villetta con piscina ed altre comodità, alla periferia di Napoli. Sono ricco abbastanza e posso permettermi anche auto di lusso. Adesso solo tre puttane, lavorano per me, e all`occorrenza, mi dedicano anche i loro favori, (guadagnano piu loro in una settimana, che un ministro in un mese) e un folto gruppo d’amici importanti, oleati bene, dove poter attingere in caso di bisogno. Ma tutto cio’ oramai, e` solo un peso per me. (E` come una palla al piede che blocca il cammino.) Ora, al tramonto della vita, sulla soglia della morte, voglio disfarmi di tutto. Spegnere l`inferno dentro di me e ridare respiro all’anima. Voglio solo sentirmi in pace con Dio e con gli uomini.
Credo che stia andando troppo oltre. E` meglio proseguire con ordine, e, raccontare tutto dall` inizio.

IL RICORDO

Nacqui a Napoli nell`anno 1948 nel mese d’Aprile, da genitori napoletani. Mio padre operaio, mia madre casalinga. Due anni dopo nasce mio fratello. Nel 52 mia sorella. Dopo qualche anno, per ragioni familiari, ci trasferimmo nell`entro terra napoletana in un piccolo e sperduto paesino di campagna.
Qui` trascorsi l` infanzia, frequentando, senza alcun interesse e volonta` le classi elementari, (che ripetei piu` volte) la mia adolescenza ribelle e parte della dissoluta giovinezza. Mia madre e` costretta, quando mi accompagna a scuola, a sostare per un po` di tempo fuori al cancello d`ingresso per timore ch` io possa scappare.
Questo periodo lo trascorriamo nella miseria piu` nera. Il piu` delle volte io e i miei fratelli, siamo costretti ad andare a letto senza aver mangiato. Mia madre, comprava il minimo indispensabile, indebitandosi dal salumiere e dal panettiere, di giorno in giorno, senza pagare mai. Si giunse, andando di questo passo, al momento in cui, venuta meno ogni fiducia e credibilita’ non poteva acquistare piu’ nulla a credito. Si aggravava, cosi, ancor più, la nostra precaria situazione. Mio padre, poi, che continuava a prelevare soldi in prestito, e tra un prestito e l`altro, si trovava sempre di piu` in mezzo ai guai. Quello che riusciva a guadagnare con il suo lavoro, non era sufficiente a soddisfare i vari creditori. Ricorreva, cosí, ad altre persone che si aggiungevano alla lista, e, pagava interessi su interessi e restavano sempre i capitali da restituire.
Solo, una vecchia signora che girava per le case vendendo latte, com’era in uso, consapevole della nostra situazione, non chiese mai soldi. Se non fosse stato per lei, nelle mattinate d`inverno saremmo, non soltanto morti per fame, ma anche per il freddo. Quella tazza di latte caldo era un vero toccasana. Ricordo che prima di bere ci scaldavamo le mani. Dopo tutto eravamo felici. Nel letto ci stringevamo l`uno con l`altro in segno di protezione reciproca. Mia madre era diventata esperta nella cattura dei piccioni: come ne vedeva qualcuno poggiarsi sul davanzale della finestra o sul balcone, si preparava alla caccia e non sbagliava mai il bersaglio. Una volta catturato, lo cucinava. Abbiamo rischiato parecchio in quel periodo, in termini di malattie, ma la fame non ha frontiere. Facevamo una vita peggiore di quella che mandava avanti un cane. Sono stati giorni, momenti, che non è possibile spiegare a parole, bisogna averli vissuti per comprenderne il vero significato e il segno che hanno lasciato sulla nostra pelle e nel nostro animo. Si andava avanti cosi’ di settimana in settimana di mese in mese, d’anno in anno, senza speranza di uscirne e di cambiare. Eravamo come condannati a morte. Crescevamo, tra la fame, gli stenti, le privazioni, i debiti di mio padre, il quale una sera fu picchiato, e, gli immersero la mano destra nella pece bollente, per non aver mantenuto fede alla data di un saldo. Ma lui, non poteva mai mantenere fede alle date. Mia madre, esasperata, ci litigava continuamente, e rimpiangeva il giorno che si era sposata. Le sorelle e i fratelli la incitavano a separarsi dal marito, e, quando lei si diceva contraria ad una simile decisione, litigava anche con loro. Succedeva che per settimane nessuno si faceva piu’ vivo. A volte, queste persone, venivano in nostro soccorso, come meglio potevano: con abiti smessi, qualche soldo lasciato per farci cenare oppure una piccola spesa fatta dalle sorelle all’insaputa dei rispettivi consorti. Erano continue umiliazioni e maltrattamenti morali che mia madre mandava giu’ come una medicina amara che devi prendere assolutamente per sopravvivere. Ancora di piu’, cresceva, l’umiliazione in lei quando era costretta a chiedere soldi in prestito ai parenti, (quando mio padre non riusciva ad averli da altre fonti), sapendo che non li avrebbe mai restituiti, e a maggior ragione poi, i familiari, odiavano ancora di piu’ il loro cognato, (che giudicavano un imbroglione). Lei digiunava sempre, per avere la certezza che quel poco che si riusciva a mettere insieme poteva nutrire noi ragazzi, anche il giorno dopo. Andava avanti cosi, trascurandosi completamente. Nelle giornate fredde e gelide non faceva altro che bere anice per riscaldarsi. Quelle bottiglie le erano donate dalla proprietaria dell’appartamento che avevamo in fitto, la quale, si divertiva a fabbricare liquori in casa. Non sapeva di essere incinta mia madre, e che, il bambino, le era morto in grembo cosi, un giorno, si senti male all’improvviso, e, si rese indispensabile mandarla in ospedale. Venne l’autoambulanza a prelevarla. Le sorelle, con prepotenza, dopo aver litigato con mio padre, ritenendolo responsabile dell’accaduto, portarono via i miei fratelli, io, siccome non ero simpatico a nessuno, restai con mio padre. In verità, anche se avessero deciso di portarmi via, non ci sarei andato, per non lasciarlo solo. (Mi dispiaceva abbandonarlo) andarono via senza neppure salutarci o chiederci se avessimo bisogno di qualcosa. Quel giorno, sentii un tonfo al cuore. Mi si raggelo’ il sangue. Per la prima volta eravamo separati. Io e mio padre ci ritrovammo a piangere.
Lui, povero disgraziato, solo contro tutti, per non incontrarsi con i cognati, e, litigare, evitava di recarsi in ospedale, a far visita alla moglie. Non gli era possibile neppure telefonare, per avere notizie dei figli, poiché, come sentivano la sua voce, bloccavano il telefono. Trascorsero cosi alcune settimane senza ricevere notizie. Mio padre prese coraggio, e, deciso, che doveva tentare di incontrarsi con la moglie e chiedere a qualcuno dei cognati di vedere i figli. Cosi, una domenica mattina, pioveva a dirotto, sembrava un diluvio universale, mio padre mi porto’ a Napoli, con la ferma convinzione di rivedere e abbracciare la moglie, ma, prima che entrassimo in ospedale si accorse che ci precedeva una delle cognate e si ritrasse. D`un tratto il coraggio l`abbandono`. Ebbe paura. Rimasi deluso. Avrei voluto reagire, rimproverarlo, ma quel giorno, non so perché, mi fece pena. Io piangevo: volevo vedere la mamma. Restammo, per diverso tempo, nell`androne di un palazzo, di fronte all’ospedale, nell’attesa che la cognata andava via, e dove, nel frattempo, aveva fissato un appuntamento ad un tizio, che, gli doveva prestare dei soldi. Non riuscimmo a salire, perché, ad uno ad uno come una processione, si presentarono tutti i familiari. Il tizio, su cui mio padre aveva tanto confidato, non venne, e, quel giorno, mentre l’acqua veniva giu’ senza alcuna pieta’ nei nostri riguardi, facemmo rientro a casa, fradici, e piu’ delusi che mai. Restai parecchio tempo senza vedere mia madre, (che seppi, in seguito, aveva rischiato di morire, ) e tanto meno i miei fratelli. Mio padre, durante la settimana lavorava, e solo la domenica, aveva disponibilità per recarsi in ospedale, ma non riusci mai a salire da mia madre per tutto il corso della degenza. Dopo il suo tentativo fallito, per ricevere informazioni, diede il compito ad un amico di famiglia che, periodicamente si recava in ospedale, e, quando questi ritornava, ascoltavo, le notizie con un fremito indicibile. Tra le altre cose, raccontava che mamma si preoccupava tanto per noi e che non desiderava altro che ritornare a casa al piu` presto. Piu` volte l`aveva vista piangere. Poi, apriva la borsa, e, tirava fuori cio` che mamma mi aveva mandato, ed era sempre qualcosa da mangiare: formaggini, panini, arance, marmellata ecc. Mio padre, la mattina andava via, per lavoro, e, mi lasciava in affido presso una contadina zitella, (una quarantacinquenne che puzzava di stalla ad un chilometro di distanza, ) che a volte gli prestava soldi, e che, mesi addietro, si diceva, i due avessero avuto dei rapporti amorosi. Mia madre n’era piu`che convinta. Litigavano e lui asseriva, che lei si faceva trascinare da cio` che dicevano le pettegole del paese. Non si sapeva chi aveva ragione, se mia madre o mio padre che negava il fatto categoricamente. D`altronde, una prova inconfutabile non c`era mai stata, erano solo voci. Ma un pomeriggio, mentre stavo nel giardino di questa signora a giocare nell’attesa che mio padre venisse a prendermi, una pioggia improvvisa mi costrinse a riparare in casa. Aprii la portafinestra ed entrai. Subito la scena sì presento` in tutta la sua cruda violenza: la donna, piegata sul tavolo da pranzo, porgeva il culo a mio padre il quale la stava penetrando con movimenti rapidi mentre lei gridava: ’’Cchiu`fforte. Cchiu` fforte”. Era la prova che mia madre cercava. Lui, con gli occhi chiusi, la testa alzata, concentrato nel godimento, e lei, con la testa rivolta alla parete che mi stava di fronte, non si accorsero della mia presenza. Io restai immobile. Solo quando lei, in un gemito di piena goduria, gridando: “Sguarrame `a fessa”, volto` freneticamente la testa verso di me, mi vide, mando` un urlo di terrore. Mio padre, nell`udire quell`urlo, che suonava come una nota stonata, in quel dolce contesto, subito apri gli occhi e si accorse della mia presenza. Immediatamente tiro` fuori del corpo della donna il suo arnese lungo, duro e gocciolante, e lo ripose, in fretta, nei pantaloni. Lei, si ricompose e scappo` nell`altra camera. Io uscii senza dire una parola e mi allontanai di corsa. Mi raggiunse mio padre. Quando mi fu vicino dissi: “Mamma aveva ragione.” Restai fermo, immobile, con la compostezza e la serietà` di un adulto. (D’altronde si sa che, quando la vita e` dura, si cresce in fretta). Aspettavo una risposta. Lui cerco`di scusarsi, in tanti modi. Mi convinse, quando affermò che doveva farlo, perché` lei lo voleva, e, non poteva rifiutarsi con il rischio di trovarsela nemica: aveva bisogno di lei per i prestiti. Sorridendomi come sicuro che a quella giustificazione l’avrei perdonato, mi strinse forte a se. Mi fece giurare che non avrei mai detto niente alla mamma, e quel giuramento, l`ho sempre mantenuto. Da quella donna non volli mai piu` tornare. Cosi mio padre tutte le mattine mi portava con lui, e mi lasciava nell’abitazione del custode della fabbrica, dove restavo in compagnia della moglie e dei suoi due figlioletti. Trascorrevamo il tempo giocando e sfogliando fumetti. Venne Natale, un natale gelido come mai, veniva giu la neve come coriandoli, e le strade erano tutte imbiancate, a casa stavo io, mio padre ed il suo amico, che ci faceva compagnia. Trascorremmo il peggior Natale della nostra vita e cosi pure il capodanno. Nessuno dei familiari di mia madre s’ interesso` a noi. Rimanemmo soli, abbandonati come cani, fin quando mia madre, non fu dimessa dall’ospedale e i miei fratelli ritornarono a casa. Per me quel giorno fu una vera gioia. Ci abbracciavamo e ci baciavamo ripetutamente. Dopo questa tragica parentesi, la nonna materna, veniva un paio di volte la settimana e portava sempre qualcosa, e, per noi, vederla, era una vera festa. Mia madre non ha mai voluto separarsi dal marito. Ha sempre lottato per mantenere l’unione e il rispetto, da parte nostra, dovuto al genitore. Lei ci litigava di continuo, lo trattava da schifo, lo umiliava, una volta lo minaccio’ con un coltello, ma se noi dicevamo solo una parola contro nostro padre erano schiaffi. Il suo atteggiamento era giustificato dalla vita grama che conduceva. La rabbia si accumulava periodicamente e poi, esplodeva. Mio padre, che non sapeva ne` leggere e ne` scrivere era schiavo di chi lo comandava sul lavoro, e di chi gli prestava soldi, non poteva mai ribellarsi, reagire, avere un minimo di personalita’. Doveva sempre fare quello che gli altri gli dicevano di fare, e non poteva agire altrimenti, se voleva tenersi il lavoro e i prestiti. Anche lui era prigioniero di se stesso. Guardando mio padre, che mi dava l’impressione di un cane bastonato e sempre con la coda tra le gambe, mi dissi subito che non dovevo diventare come lui. Il tempo passava, ma la situazione peggiorava sempre di piu’. Incominciammo a cambiare anche abitazione, perché’ eravamo arretrati con le pigioni e ci misero fuori. Andammo ad abitare in un basso, all’interno di un cortile in comune con altre persone, una vera latrina, tutti in una sola stanza con cesso all’aperto e cucina unica: per riscaldare un po’ di latte si doveva aspettare il turno. Mia madre era presa da continue crisi isteriche che quasi impazziva. Se non giunse alla pazzia fu per quel po’ d’autocontrollo che le era ancora restato. La miseria ci avvolgeva. A volte non c’erano neppure i soldi per comprare il carbone per il braciere. Con una tale situazione da catastrofe, mia madre, si fece mettere incinta di nuovo, e nacque una bella bambina che, dopo poche settimane di vita si ammalo’ di meningite e mori, quasi come se Dio avesse voluto sottrarla e salvarla dai nostri patimenti. Non c’erano i soldi per il funerale. Nessun prestito era possibile. Si dovette chiedere l’intervento del comune.
Trascorrevamo, noi ragazzi la, maggior parte del tempo giu’ nei campi a correre, ad imitare gli indiani, (come vedevamo nei film al cinema o alla televisione che era ai primi albori e che si andava a guardare giu’ alla sede del partito comunista, oppure in casa di qualche amico fortunato) ad arrampicarci sugli alberi, a praticare le prime masturbazioni in gruppo. Poi io ebbi la mia prima esperienza, nel vedere e toccare il sesso femminile, con una ragazzina, sorella di un amico, con la quale giocavamo al dottore, come si è sempre fatto tra ragazzi. Il fratello in cambio di qualche regalino mi portava la sorella nel prato per farmi giocare… A volte era lui stesso a dirmi: “Domani ti porto mia sorella. Tu portami qualcosa di buono”. (Questo tizio dimostrava gia’ la sua tendenza: difatti è diventato un magnaccia.)
In seguito incominciai a conoscere altre ragazzine, il mio cazzo, ( precoce) incominciava a farsi sentire, e, iniziai a giocare in modo differente. Mi portavo le ragazzine nelle case contadine abbandonate. Ricordo che una volta, con una ragazza che mi piaceva tanto, scesi in un pozzo dopo aver preso una scala che si trovava vicino ad un albero di noci. Restammo lì per diverso tempo io, con le mani tra le sue cosce, e lei, con le sue tra le mie a massaggiarci dolcemente. In quel paese ero conosciuto come il “Terribile”, ero un vero caporione. Tutti mi volevano picchiare, uccidere. Per tutto quanto accadeva in quel paese il responsabile ero io. Avevo una banda di ragazzini che mi seguivano a ruota libera. Andavo dappertutto. A volte per ore ed ore me ne stavo seduto al cinema, dove entravo senza pagare, e, affascinato da cio’ che vedevo, mi dimenticavo che a casa potevano preoccuparsi e cercarmi. Una sera feci piu’tardi del solito. Mi ritrovai mio padre addosso e fui picchiato di santa ragione. Terminate le elementari, con grande sforzo, e ritardo, e, per la gioia degli insegnanti, ero convinto, che per me, il capitolo scuola fosse totalmente chiuso; che i miei, cioe`, fossero consapevoli che era fatica sprecata. Invece, mio padre, piu` testardo di un mulo, m’iscrive, alle scuole medie presso un istituto di Napoli. Non solo dovevo sopportare la tortura di entrare in un’aula scolastica, ma dovevo anche svegliarmi presto per non perdere il pulman. Continuavo a frequentare la scuola ma senza alcun interesse. Il piu’ delle volte litigavo con gli insegnanti ed ero messo fuori dell’aula con le orecchie d’asino. Per la rabbia, andavo nel bagno e mi mastrurbavo, scaricando tutta la tensione. Non avevo interesse per nulla. Mi piaceva solo stare in mezzo alla strada con i miei amici, andare a vedere le puttane e divertirmi. Mentre i miei fratelli crescevano in modo perbene, io, a detta di tanti, diventavo un delinquente. Tutti mi evitavano come se avessi avuto la peste. Piu’ mi evitavano, ed io piu’ mi ribellavo. Piu’ mi ribellavo e piu’ facevo cio’ che agli altri non piaceva. Incominciai a marinare la scuola. Andavo passeggiando per Napoli, (e fu allora che per la prima volta vidi il mare. Mi sembrava strano assurdo, che potesse esistere una massa d’acqua cosi enorme. Rimasi affascinato. Estrapolato da quel misero paese, incominciavo a vedere e comprendere cose nuove,) oppure andavo al cinema della galleria Principe di Napoli, dove, in seguito incominciai ad entrare gratis, perché divenni amico della cassiera, che a volte mi chiedeva dei favori: lettere da portare, pacchetti da ritirare, (non ho mai saputo cosa contenessero ma, presumibilmente, doveva trattarsi a volte di droga, a volte di soldi falsi, sulla droga non ci giurerei, ma sui soldi si, perché, spesso e volentieri, mi mandava a cambiare delle banconote, di grosso taglio, ) e, con l’uomo della proiezione, che era un ricchione, al quale piacevano i ragazzi, e che spesso, mi faceva salire in cabina e me lo prendeva in bocca, come ricompensa, mi regalava il biglietto omaggio per l’ingresso ad un cinema cittadino, fino all`ora della campanella. Avevo bisogno di soldi e li chiedevo per la strada a tutti i passanti. Purtroppo non andava sempre bene. Dovevo cercare qualcosa di piu` concreto. Cosi decisi di andare per i bar a chiedere lavoro….

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